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British Corner – Manchester United, venerdì il 57esimo anniversario della tragedia di Monaco
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10 anni agoon
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RedazioneUndici spazi vuoti. Al posto dei nomi dei giocatori sul programma della partita più triste della storia del calcio inglese c’erano undici spazi desolatamente vuoti. La sfida di quinto turno di Coppa d’Inghilterra tra Manchester United e Sheffield Wednesday, tenutasi davanti a 60mila persone con gli occhi gonfi di lacrime e poi vinta dai padroni di casa, imbottiti di riserve e giocatori presi in prestito qua e là, era infatti la prima che i Red Devils disputavano dopo la tragedia di Monaco di Baviera. Un maledetto incidente aereo che si portò via buona parte dei Busby Babes, una delle nidiate di campioni più feconde di sempre, allevata con maestria dal precursore e conterraneo di Alex Ferguson, quel Matt Busby che in 25 anni di servizio all’Old Trafford gettò le saldissime fondamenta su cui si regge tuttora il mito dei biancorossi della metropoli del Lancashire. Un gruppo fatto di giovani provenienti dal vivaio che aveva già lasciato il segno negli annali del football, vincendo alla grande due campionati, e che chissà quanti altri successi avrebbe mietuto negli anni a venire. Invece il 6 febbraio 1958, alle 16.04 locali, il velivolo che doveva riportare a casa quel team formidabile e la sua corte di giornalisti si schiantò sulla pista dell’aeroporto di Monaco, al terzo tentativo di decollo. Le avverse condizioni climatiche – c’era una bufera di neve in atto – giocarono un ruolo fondamentale, così come era successo nove anni prima per un altro immane dramma sportivo e non solo, la scomparsa del Grande Torino sulla collina di Superga.
Nel caso del Manchester United non tutti perirono tra le lamiere contorte del volo BE 609 della British European Airways di ritorno da Belgrado, dove i Diavoli Rossi pareggiando 3-3 con la Stella Rossa si erano assicurati il passaggio alle semi-finali della Coppa dei Campioni. Tra i sopravvissuti ci fu Bobby Charlton, forse il miglior giocatore inglese di sempre, che nella sua autobiografia ha ricordato come da 57 anni faccia una fatica incredibile a convivere con il peso di quella sciagura. Il campione del mondo del 1966 parla addirittura di rimorso, lo stesso sentimento provato da Busby, tormentato dalla perdita dei suoi bimbetti prodigio. Il leggendario allenatore scozzese ce la fece per miracolo. Un paio di volte ricevette l’estrema unzione, vista la gravità delle sue ferite. Ma le cicatrici della mente non guarirono mai neppure per lui.
La lista dei caduti, purtroppo, fu molto lunga. Tra le 23 vittime si contarono otto giornalisti, compreso l’ex portiere del Manchester City e della nazionale inglese Franck Swift, tre membri dello staff dello United e otto babes. Persero la vita Roger Byrne, il capitano e per tanti il possibile successore di Busby, la sua riserva, Goeff Bent, portato a Belgrado per precauzione, visto che Byrne era leggermente infortunato, i nazionali inglesi David Pegg e Tommy Taylor – quest’ultimo secondo alcuni “tecnicamente” non era un vero e proprio membro dei Babes, poiché fu acquistato dal Barnsley e non cresciuto nelle giovanili, ma a Busby, come a tutti gli allenatori da quando si prende a calci una sfera di cuoio, faceva comodo un attaccante molto prolifico come lui. E ancora l’irlandese trapiantato nel Lancashire Liam “Billy” Whelan, Mark Jones, roccioso centrocampista e abile allevatore di pappagallini e il talentuoso Eddie Colman, appena ventunenne ma già idolo indiscusso dei tifosi. Colman proveniva dal quartiere proletario di Salford, poi usato come modello per la decennale soap britannica Coronation Street.
Dopo 15 giorni di sofferenze indicibili si spense anche Duncan Edwards, un ragazzone delle Midlands che aveva le stimmate del predestinato. Uno che per doti tecniche, velocità e sagacia tattica era già un fenomeno a 15 anni, come affermò anni dopo Busby. Chi lo ha visto giocare non ha dubbi, avrebbe offuscato la stella di Bobby Moore, il capitano dei bianchi d’Inghilterra che nell’edizione casalinga del mondiale ricevette la Coppa Rimet dalle mani di Elisabetta Seconda. Tra chi lo ha ammirato c’è anche Terry Venables, un predecessore di Fabio Capello. El Tel, come lo chiamano oltre Manica, ebbe la fortuna di essere presente all’ultima partita dei Busby Babes sul suolo inglese, un incredibile 5-4 rifilato all’Arsenal nel vecchio Highbury, che sembra quasi il testamento calcistico di quel team di “bambini” terribili. Edwards morì a soli 21 anni. All’epoca era il giocatore più giovane ad aver mai vestito la maglia con i tre leoni sul petto – collezionò in tutto 18 presenze. Dopo la scomparsa del figlio, suo padre Gladstone lasciò il posto in una fonderia per diventare il giardiniere del cimitero della cittadina di Dudley, dove riposavano le spoglie di Duncan. Così da potergli stare sempre vicino.
Il dramma del Manchester United fu uno degli eventi che in quegli anni colpirono di più il popolo inglese, che pian piano si stava tirando fuori dalle fatiche e dagli stenti del secondo dopoguerra. Il giorno della tragedia la BBC interruppe la programmazione per dare la notizia e tutte le prime pagine dei giornali aprirono con i fatti di Monaco. Sul Manchester Evening News accanto ai pezzi sull’incidente c’era la rubrica siglata da Byrne, in cui il capitano si augurava di incontrare il Real Madrid in semi-finale, così da potersi prendere la rivincita per l’eliminazione subita la stagione precedente. Un sogno svanito tra i cumuli di neve del sud della Germania.
Quel team già così ampiamente decimato perse per sempre, ma solo sul campo, anche Johnny Berry e Jackie Blanchflower, fratello della leggenda del Tottenham degli anni sessanta Danny. Le menomazioni fisiche sostenute impedirono ai due di continuare a giocare. Il club non si dannò certo l’anima per aiutarli – come d’altronde non sostenne economicamente i parenti delle vittime. Anzi, una volta presa la decisione di appendere le scarpe al chiodo gli intimò di lasciare le abitazioni messe a disposizione. Visti i tempi, nulla di troppo eclatante. Allora il potere contrattuale dei calciatori era molto basso, mentre a causa di draconiani limiti salariali i loro guadagni erano in media – se si escludono i premi – addirittura di poco inferiori a quelli di un operaio qualificato. Insomma, le società facevano il bello e cattivo tempo, come si accorsero sulla loro pelle Berry e Blanchflower.
Busby fu quindi chiamato a ricostruire la squadra quasi da capo, a cercare altri giovani talenti. Compito che ancora una volta il placido scozzese seppe assolvere con grande abilità. Nel 1963 arrivò la vittoria in Coppa d’Inghilterra, seguita da due trionfi in campionato nel 1965 e nel 1967. Ma il successo più bello fu quello in Coppa dei Campioni, nella finale di Wembley del 29 maggio 1968, dieci anni dopo la terribile giornata di Monaco. A regalare quel trofeo tanto agognato al tecnico ormai ad un passo dal ritiro ci pensò un nuovo gruppo di campioni, guidato da un Charlton ormai stempiato ma sempre fortissimo e da un giovane fenomeno con la zazzera e un dribbling celestiale. Ovviamente stiamo parlando del Belfast Boy, di George Best. Uno che non avrebbe di certo sfigurato al fianco dei Busby Babes.
Luca Manes
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