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GARBAGE TIME – LeBron, l’esilio è finito: bentornato a casa, Re!
Published
11 anni agoon
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Redazione“I’m coming home,
I’m coming home,
tell the World I’m coming home,
Let the rain wash away all the pain of yesterday,
I know my kingdom awaits and they’ve forgiven my mistakes,
I’m coming home, I’m coming home,
tell the World that I’m coming home”
Una strada che costeggia il lago, le cuffie, la musica a tutto volume, gli occhi chiusi, la testa appoggiata al finestrino, le mani che iniziano a sudare e il cuore a battere, prima sommesso, adagio, poi sempre più forte, fino a sobbalzare incontrollabile nel petto, i brividi lungo la schiena e quella mistica sensazione di folgorante eccitazione.
Dopo quattro anni di volontario esilio dorato a Miami, il “Re” è, finalmente, tornato a casa.
Flashback (il primo). 8 luglio 2010, il D-Day. No, non siamo impazziti, non ci stiamo riferendo nello specifico a nessuna operazione militare, ma al giorno della “Decision” parte I, che seppur fatte le debite proporzioni, qualche cosa ha influenzato anche lei negli anni a venire.
Dopo giorni di febbrile attesa, 13 milioni di americani, eccitati ed ammassati davanti ai televisori, pendono dalle labbra carnose di LeBron Raymone James.
“In this fall I will take my talents to South Beach and I will join the Miami Heat”.
Ora, se è vero che “le opinioni sono come le palle: ognuno ha le sue”, come ci ricorda saggiamente l’Ispettore Callaghan, nel celebre “Scommessa con la morte”, la mia è che non ci sia mai stata una decisione in grado di suscitare così tanto clamore e tanto controversa nella storia recente dello sport professionistico americano come questa.
La reazione a Cleveland, è immediata, spontanea, sconsiderata, a tratti violenta. Per strada i tifosi bruciano le magliette con il numero 23, fantocci con le sembianze di LeBron vengono trattati con pochi onori e fatti oggetto di cure non proprio riguardevoli. Il presidente dei Cavs, Dan Gilbert, tenuto all’oscuro fino all’ultimo secondo, fino alla pronuncia di quelle maledette 18 parole taglienti ed affilate come la lama di un coltello, si lancia in una sperticata invettiva ed in una lettera trasudante passione, delusione e rabbia giura, sapendo di mentire: “I personally guarantee that the Cleveland Cavaliers will win an NBA Championship before the self-titled former ‘king’ wins one.”
Non andrà proprio così..
Flashback (il secondo). 20 giugno 2013, con 37 punti, 12 rimbalzi, il secondo Anello consecutivo al dito ed il secondo titolo di MVP delle Finals, LeBron James è il “Re” del mondo. I Miami Heat, al termine di una delle serie di finale tra le più emozionanti e commoventi degli ultimi anni, si sono appena laureati nuovamente campioni, trascinati dalla straripante onnipotenza cestistica dei suoi “Big Three” e dalla glaciale tenacia di Walter Ray Allen.
La scelta, le polemiche, i fischi, l’odio degli “Heaters”, le critiche al “Re”, sono solo un remoto ricordo. E’ chiaro che in un mondo dominato dalla concezione per cui “vincere non è importante, ma è l’unica cosa che conta”, non c’è spazio per il sentimentalismo. Se è vero che “Un Anello val bene un tradimento”, figuriamoci due..
Flashback (il terzo). 15 giugno 2014, la fine di un’era, la caduta degli dei. Dopo due anni di vittorie e dominio incontrastato, LeBron James, si trova nuovamente ad un passo dallo sprofondare nel baratro della disfatta, dall’assaporare ancora una volta l’amaro gusto della sconfitta. Contro la squadra più forte, organizzata e completa della lega, il Prescelto, sa di non poter vincere da solo. E’ il motivo per cui ha lasciato i Cavaliers 4 anni prima, per il quale ha “tradito” una città intera. Il destino, però, si sa, troppo spesso, lo si rincontra proprio sulla strada presa per evitarlo, e gli Heat, assorbiti dal vortice della rassegnazione, vengono spazzati via dalla furia vendicatrice dei San Antonio Spurs, ponendo per sempre fine alla propria dinastia, all’era dei “Big Three”.
Flashback (l’ultimo). 11 luglio 2014, Akron, Ohio, è tempo di decidere di nuovo. Questa volta non ci sono telecamere, nessuno Special televisivo, pochi contatti, idee chiare, una lettera: allora è vero che dai propri errori prima o poi si impara. Anche quando ti chiami LeBron James, e sei universamente riconosciuto ed ammirato come il più dominante giocatore del mondo nonché uno dei più inimitabili “fenomeni” (nella più completa accezione del termine) della storia di questo gioco, non devi mai, mai, dimenticarti da dove provieni. Secondo quanto sostiene un vecchio proverbio cinese, che la leggenda attribuisce alla sconfinata produzione artistica del Grande maestro Confucio, “Per quanto un albero possa diventare alto, le sue foglie, cadendo, ritorneranno sempre alle proprie radici”.
P.s. Le parole iniziali sono tratte dalla canzone di Diddy – Dirty Money – ft. Skylar Grey dal titolo: Coming Home. Anche se il pezzo risale al 2010 (prima della Decision) a noi piace pensare che sia stata scritta apposta per il “Re” ed il suo ritorno, dopotutto, il paragone è davvero calzante..
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