Amarcord
Da Bologna a Bologna, passando per Tokyo: la parabola di Lionello Manfredonia
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4 anni agoon
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Redazione“Una vita da mediano, a recuperar palloni…” recita il ritornello di una delle canzoni di maggior successo di Luciano Ligabue. Chissà se al rocker di Correggio l’idea sarà balenata in mente guardando Lionello Manfredonia lottare sui campi della nostra Serie A con le maglie di Lazio, Juventus e Roma in quei meravigliosi anni ’80, quelli del Mundial spagnolo, di Platini, Falcao e Maradona. Lionello Manfredonia ci racconta la sua “vita da mediano”, il suo modo di interpretare il ruolo del numero 4, ago della bilancia degli equilibri di ogni squadra, schermo per la difesa, motore del centrocampo.
“Sia nella Lazio che in Nazionale cominciai da difensore centrale, la mia evoluzione in mediano davanti alla difesa si deve a un’intuizione di Roberto Clagluna che mi spostò in mezzo al campo e da lì in poi continuai a giocare in quella posizione. Ero un mediano incontrista che raddoppiava sugli attaccanti avversari e ogni tanto si spingeva in avanti trovando anche il gol, ne ho realizzati una ventina tra i professionisti“.
Come e in che cosa è cambiato il modo di interpretare il ruolo del mediano oggi rispetto ai suoi tempi?
“Ai miei tempi c’era un maggiore eclettismo rispetto ad oggi, io ad esempio ero un giocatore molto eclettico, non mi limitavo alla fase difensiva, ma sapevo destreggiarmi bene anche in quella offensiva. Di questi tempi invece, in Italia, vedo calciatori che si specializzano in un solo ruolo, mentre all’estero c’è più duttilità“.
C’è un calciatore di oggi nel quale si rivede per temperamento e caratteristiche tecniche?
“Il calcio di oggi è di gran lunga diverso da quello di una volta, molto più fisico, meno tecnico e quindi è davvero difficile fare un paragone“.
Lei, “romano de Roma”, cresce nelle giovanili della Lazio ed esordisce in Serie A con la maglia biancoceleste numero 4 sulle spalle all’Olimpico contro il Bologna a neanche 19 anni… Quando mister Corsini le comunicò che sarebbe sceso in campo da titolare al posto del capitano Giuseppe Wilson quale fu la sua prima reazione?
“Per me era un sogno che si realizzava, perché avevo fatto tutta la trafila nelle giovanili della Lazio e quindi giocare nel mio stadio, nella mia città, con indosso la maglia biancoceleste, al posto di un mito come Wilson, per un ragazzo di Roma era il massimo. Poi ebbi la fortuna di fare il mio esordio in Nazionale sempre all’Olimpico contro il Lussemburgo un paio d’anni dopo ed anche quella fu una grande gioia“.
Dopo 10 anni di onorata militanza biancoazzurra passa alla Juventus per sostituire Marco Tardelli, non uno qualunque… Sentiva su di sè il peso di un’eredità non certo semplice da raccogliere o anzi rappresentava per lei uno stimolo ulteriore?
“Tardelli è uno dei miti del nostro calcio, mentre io arrivai alla Juve con un pedigree completamente diverso dal suo. Nonostante ciò ero comunque sicuro che il mio inserimento sarebbe avvenuto rapidamente, dal momento che avevo già 10 anni di Serie A alle spalle e di conseguenza mi sentivo abbastanza maturo per poter reggere un peso del genere. Aver giocato nella Lazio mi aveva agevolato, in quanto a Roma la pressione era molto maggiore rispetto a Torino, al contrario di ciò che si pensi“.
Si racconta che Gianni Agnelli avesse un debole per lei e che avrebbe voluto portarla a Torino già 10 anni prima, ma lei rifiutò… Perché?
“L’avvocato si innamorò di me vedendomi giocare a 20 anni nella Lazio, ma all’epoca non mi sentivo ancora pronto per il grande salto e forse non fui ben consigliato. Così decisi di rimanere a Roma, però, ripensandoci oggi, mi rendo conto che se fossi approdato sotto la Mole 10 anni prima la mia carriera sarebbe stata diversa, perché probabilmente avrei collezionato 40 presenze in Nazionale anziché 4 e avrei vinto di più“.
E appunto alla Juventus vince uno scudetto e una Coppa Intercontinentale, che ricordi ha di quei trionfi?
“Il primo anno a Torino fu straordinario, perché conquistammo lo scudetto con Trapattoni in panchina ed ebbi pure la fortuna di giocare la finale di Coppa Intercontinentale, anche se senza grandi meriti, dal momento che il diritto a disputare quella gara la Juve lo aveva conquistato nella stagione precedente vincendo la Coppa Campioni. Detto questo, quella partita la giocai, la vinsi e mi laureai campione del mondo insieme ai miei compagni“.
Il suo gol più importante è forse quello che decise il derby della Mole del dicembre 1986: Juve-Toro 1-0 e Manfredonia che corre ad esultare sotto la Curva bianconera… In quell’occasione rubò la scena a sua maestà Michel Platini…
“In effetti sì, infatti quello è uno dei gol che ricordo più volentieri, così come quello, regolarissimo, che però non mi venne convalidato a Madrid contro il Real. Ricordo ancora la battuta di Michel, il quale mi disse che se io avessi segnato al Bernabeu il calcio sarebbe finito! (ride n.d.r.)“.
Dei tanti fuoriclasse con cui ha avuto la fortuna e il piacere di giocare, quale di questi, a suo parere, è stato il più determinante?
“Senza dubbio Platini, è stato lui, assieme a Giordano e Laudrup, il giocatore più forte e determinante con il quale abbia giocato. E poi a Michel sono grato perché mi ha aiutato ad ambientarmi a Torino, infatti, arrivando da Roma, i primi tempi sotto la Mole per me furono un po’ più complicati, ma lui, con grande umiltà si mise a mia disposizione e mi diede una mano a inserirmi nella nuova realtà“.
A Bruno Giordano, suo compagno di squadra ai tempi della Lazio, la lega un’amicizia che dura ancora oggi… Fu proprio lui il primo a soccorrerla quel maledetto pomeriggio del 30 dicembre 1989… Segno del destino o semplice coincidenza? Ci ha mai pensato?
“È un segno del destino il fatto che io abbia cominciato la mia carriera insieme a lui nella Lazio e che insieme a lui l’abbia conclusa quel pomeriggio a Bologna. Nella mia vita c’è un grande campione come Bruno Giordano, che io reputo, per potenzialità, allo tesso livello di Platini e Laudrup. Sono questi i tre campioni che ho ammirato più di tutti“.
Dopo le due stagioni alla Juve accetta la proposta della Roma, nonostante i suoi trascorsi laziali… Ha tutti contro, i suoi ex tifosi che la considerano un traditore e il suo nuovo pubblico che vede in lei un simbolo degli odiati cugini… Come riuscì a gestire le pressioni della piazza?
“Grazie al mio carattere forte, perché io penso che per giocare a certi livelli bisogni essere in possesso non soltanto di tecnica, ma anche e soprattutto di determinazione e intelligenza. La mia freddezza mi ha permesso di rimanere sempre tranquillo anche nei momenti più delicati. La mia forza è stata quella di non subire la pressione, quindi, nonostante i primi mesi in giallorosso fossero stati parecchio difficili dal punto di vista ambientale, una volta sceso in campo riuscivo a concentrarmi e a non farmi condizionare dalla contestazione della tifoseria romanista, che alla fine seppi conquistare“.
Lei fu tra i partecipanti alla spedizione italiana ai Mondiali del ’78 in Argentina: ancorché giovane e privo di esperienza internazionale, Bearzot le diede fiducia affidandole il ruolo di vice Bellugi, ma poi le preferì Cuccureddu… Si sentì in qualche modo “tradito” dal CT?
“Diciamo di sì, anche se, col senno di poi ho capito che per un ragazzo di 22 anni partecipare a un Mondiale avrebbe dovuto rappresentare il raggiungimento di un traguardo importante. Invece, in quel momento, non accettai la scelta del CT ed ebbi nei suoi confronti una reazione eccessiva. Gli dissi che non ero andato in Argentina per fare il turista, ma per giocare. Lui però non gradì quel mio sfogo e di fatto non mi convocò più. Se magari avessi avuto al mio fianco una guida che avesse saputo darmi i giusti consigli, la mia carriera in Nazionale sarebbe stata con ogni probabilità più lunga e ricca di soddisfazioni“.
Il punto più alto e quello più basso della sua carriera…
“Il punto più alto è stato sicuramente la conquista del mondo a Tokyo con la Juve, mentre quello più basso la retrocessione con la Lazio nell’anno di Lorenzo in panchina. Eravamo una squadra forte, ma purtroppo per una serie di circostanze negative finimmo in Serie B e quella per me fu una delusione cocente, che brucia ancora oggi“.
Tra tutti i tecnici che l’hanno allenata, ce n’è uno a cui è maggiormente legato, al quale si sente più riconoscente?
“Gli allenatori che più degli altri mi hanno fatto crescere come calciatore e come uomo sono stati Roberto Clagluna, Paolo Carosi, sotto la guida del quale vinsi lo scudetto di categoria con la Primavera della Lazio, e poi Luis Vinicio, che mi lanciò nel grande calcio. Purtroppo Roberto Clagluna e Paolo Carosi sono scomparsi, mentre Luis Vinicio è ancora in grandissima forma“.
Lei ha detto poc’anzi di non aver avuto accanto una persona che sapesse consigliarla in alcuni momenti chiave della sua carriera… Oggi Lionello Manfredonia di mestiere fa il procuratore, ma quand’era calciatore aveva un agente che curasse i suoi interessi?
“Ai miei tempi non esisteva ancora la figura del procuratore, il primo che in quel periodo si affacciò sulla scena come agente di calciatori fu Dario Canovi, che mi diede una mano in occasione del mio trasferimento alla Juve, ma non ebbi mai un procuratore“.
Da procuratore, pensa che se avesse avuto al suo fianco un agente, alcune delle scelte che ha fatto nella sua carriera da calciatore sarebbero state diverse?
“Probabilmente sì, perché, se avessi avuto una guida, nel momento in cui a 20 anni ricevetti la proposta della Juventus, forse avrei preso una decisione diversa. Detto questo, penso che oggi la figura del procuratore sia importante per un calciatore, perché è raccomandabile per un professionista avere accanto qualcuno che sappia supportarlo e consigliarlo“.
In un’intervista di qualche anno fa, lei confessò che le sarebbe piaciuto provare un’esperienza da calciatore all’estero…
“È vero. Quando mi ritirai dall’attività agonistica avevo 32 anni e, se non fossi stato costretto a smettere, avrei ancora avuto la possibilità di provare un’esperienza all’estero in un calcio diverso dal nostro, magari in Inghilterra o in Spagna, per ampliare i miei orizzonti e imparare le lingue“.
Lei è stato uno dei primi calciatori a conseguire la laurea, pensava già al suo futuro dopo il calcio?
“Ho avuto la fortuna di avere due genitori splendidi che mi hanno sempre consigliato nel migliore dei modi e per i quali la scuola e lo studio venivano prima del pallone, quindi grazie a loro sono riuscito a giocare a calcio ed anche a laurearmi“.
Dal Bologna al Bologna: contro i rossoblù all’Olimpico giocò la sua prima partita in serie A con la maglia della Lazio e sempre contro di loro, ma stavolta in giallorosso, disputò la sua ultima gara nel massimo campionato… Cosa le evoca oggi la maglia rossoblù?
“Mi evoca ricordi soltanto positivi, perché comunque, in occasione dell’esordio in Serie A con la maglia della Lazio coronai il sogno di una vita e in quell’ultima gara che chiuse la mia carriera, nella sfortuna, ebbi la fortuna di trovarmi in una grande città come Bologna, che mi permise di continuare a vivere, grazie alla tempestività dei soccorsi e alla professionalità dei medici dell’Ospedale Maggiore“.
Il 30 dicembre 1989 sul prato del Dall’Ara, la vita di Lionello Manfredonia, come un pallone calciato a effetto, assume una traiettoria imprevedibile, rischiando di finire oltre la porta e di perdersi per sempre. Ma il mediano è forte, non si arrende, i palloni li recupera, non li perde…
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