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Azeglio Vicini e quel sogno che poteva diventare realtà…
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9 anni agoon
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RedazioneHa guidato la nazionale nelle notti magiche di Italia ’90, dandole un gioco divertente e spettacolare, conducendola a un passo dalla vittoria. Ha plasmato generazioni di giovani campioni durante la sua esperienza come CT dell’Under 21 e, una volta pronti, li ha portati con sè nella nazionale maggiore, lanciandoli nel firmamento del calcio mondiale. Da Vialli a Mancini, da Zenga a Maldini, da Giannini a Donadoni, tutti approdati in maglia azzurra grazie a mister Azeglio Vicini, un’istituzione del nostro calcio. A lui, abbiamo chiesto come si sia evoluta e quanto sia cambiata negli anni la figura dell’allenatore, quanto sia diverso il modo attuale di allenare e gestire un gruppo dal modo in cui lui allenava e gestiva il suo. Non potevamo non chiedergli, infine, a venticinque anni di distanza dalla sfortunata semifinale persa ai rigori contro l’Argentina di Maradona, cosa gli rimanga ancor oggi dentro di quelle notti magiche, sotto il cielo di quell’estate italiana.
Mister, da qualche anno ormai, lei si è allontanato dal mondo del calcio, un mondo che ha vissuto a fondo, giorno per giorno, da giocatore prima e allenatore poi… Oggi, cosa le manca di più di quel mondo?
“È un mondo che indubbiamente manca, quando di questo mondo si fa parte direttamente. Dopo aver smesso i panni di allenatore sono comunque rimasto nel calcio, infatti, ho rivestito per un decennio la carica di presidente dell’Associazione Allenatori e per un quinquennio quella di presidente del Settore Tecnico di Coverciano. Da due anni sono ormai fuori dal calcio, ma seguo sempre le partite in tv, anche se un conto è guardare una partita in televisione e un altro è poterla seguire dal vivo allo stadio“.
Quanto è stata importante la sua esperienza da calciatore per la sua successiva carriera da allenatore?
“Credo che l’esperienza da calciatore sia molto importante per diventate poi un allenatore e più ad alto livello la si fa meglio è. Allenatori però si diventa anche con l’applicazione, la passione, la personalità, la cultura e tutta una serie di altre attitudini. Ma più di tutto, per fare questo mestiere, bisogna avere e metterci una grande passione“.
Quanto e come è cambiata la figura dell’allenatore dai suoi tempi ad oggi? E come sono cambiati i metodi di allenamento?
“Credo che i metodi di allenamento siano cambiati, ma non così tanto, perchè se andiamo a vedere gli allenamenti delle squadre di calcio oggi, ci accorgiamo che gran parte delle attività si svolgono come si svolgevano venti o trent’anni fa. Poi, è chiaro che i metodi vengano perfezionati nel corso del tempo, perchè ogni allenatore ci mette qualcosa di suo per rendere più interessante la propria seduta di allenamento. La figura dell’allenatore è cambiata, ma non tantissimo, anche se bisogna tener conto di alcuni fattori, quali il cambiamento delle regole e soprattutto l’aumento del numero complessivo di partite da giocare nel corso di una stagione, perchè prima si giocava una partita a settimana, al massimo due per chi disputava le coppe europee, mentre oggi si gioca ogni tre giorni. E giocare una partita ogni tre giorni determina un profondo cambiamento nel modo di gestire la squadra da parte dell’allenatore“.
In che percentuale, secondo lei, incide, nel calcio di oggi, un allenatore sui risultati di una squadra e in che percentuale incideva invece nel suo calcio?
“Io credo che un allenatore incida sempre in modo determinante. Una squadra guidata da un allenatore non all’altezza della situazione è destinata a fallire in partenza, quindi l’allenatore dev’essere innanzitutto adatto alla squadra e alla società e poi dev’essere un leader, un comandante, un capo, deve avere grande personalità. Gli allenatori di oggi, però, a differenza di quelli della mia generazione, lavorano di meno sul piano individuale, infatti, si sente spesso parlare di allenatori che si portano dietro addirittura sei/sette collaboratori. Il calcio si sta evolvendo, sta cambiando e con esso si evolve e cambia necessariamente pure l’allenatore“.
Come è cambiato, se è cambiato, il rapporto tra l’allenatore e i suoi calciatori? Come interagiva Azeglio Vicini con i suoi ragazzi?
“Dipende sempre dal riferimento temporale che assumiamo. Se ci riferiamo a quarant’anni fa, certo, il rapporto tra allenatore e calciatori è notevolmente cambiato. La gestione di venticinque/trenta giocatori quasi di pari livello rende più difficile per l’allenatore instaurare un rapporto con ognuno di essi, ma allo stesso tempo costituisce un grande vantaggio, perchè si hanno a disposizione elementi che entrando dalla panchina possono cambiare il volto di una partita. Oggi quasi tutte le squadre hanno in rosa, come dicevo poc’anzi, dai venticinque ai trenta calciatori, tutti potenzialmente titolari, agguerriti e determinati a conquistarsi il proprio spazio ed è compito dell’allenatore gestirli nella maniera migliore, facendoli ruotare per dar modo ad ognuno di essi di giocare. Però è difficile far giocare tutti e quindi si tende ad impiegare con più continuità quelli che, secondo l’allenatore, offrono le maggiori garanzie. È chiaro che l’introduzione dei cambi abbia profondamente cambiato il modo in cui un allenatore gestisce il gruppo. Io ho allenato sia prima che dopo l’introduzione dei cambi e posso dire che questi ultimi hanno rappresentato davvero una svolta, tanto per l’allenatore, che ha così ottenuto la possibilità di correggere a partita in corso la formazione iniziale inserendo elementi che in molti casi risultano decisivi ai fini della vittoria, quanto per i calciatori cosiddetti non titolari, che hanno avuto anch’essi l’occasione di poter giocare“.
Come si approccerebbe ai giovani d’oggi, lei, che plasmò tanti giovani calciatori ai tempi dell’Under 21?
“Penso che alla mia età sarebbe difficile, quindi è meglio che stia fuori. Ottant’anni mi sembrano un’età giusta per star fuori (ride n.d.r.), perchè un allenatore deve star bene fisicamente come i suoi calciatori, soprattutto se si tratta di giovani, deve stare sempre allerta, essere pronto, per cui credo che l’età abbia inevitabilmente il suo peso. L’allenatore deve dare l’esempio sul campo, non può starsene a braccia conserte, delegando tutto ai propri collaboratori“.
Gli allenatori italiani sono oggi molto apprezzati nel panorama calcistico internazionale… Chi le somiglia di più e chi invece vede più distante da lei per carattere e idea di gioco? Chi di loro incarna il prototipo dell’allenatore moderno e quale allenatore del suo periodo si è rivelato un precursore in questo senso?
“Innanzitutto è un grande successo per il calcio italiano il fatto che i nostri allenatori guidino grandi club e grandi nazionali all’estero, cosa che fino a qualche anno fa non accadeva, perchè i calciatori italiani non andavano volentieri a giocare in altri campionati, principalmente per il problema della lingua. È una cosa positiva che i nostri allenatori e i nostri calciatori vadano all’estero e si facciano onore, esportando il nostro modello di calcio in altri Paesi. Dobbiamo essere orgogliosi di loro. Fatta questa doverosa premessa, è difficile dire quale degli allenatori di oggi mi somigli più o meno, perchè il calcio è cambiato e non è semplice mettere a confronto due epoche diverse. Tra gli allenatori italiani in attività, ce ne sono diversi che incarnano il prototipo dell’allenatore moderno, su tutti Capello, Lippi, Ancelotti e il mio amico Zaccheroni. Ognuno di questi che ho citato può allenare in grandi squadre, sia in Italia che all’estero, perchè ciascuno di loro ha personalità, carisma ed esperienza. Accanto ad essi metterei pure Conte, Mazzarri e Allegri, che mi sembra incarnino bene la modernità, anche per via della loro ancor giovane età. Quando allenavo io, non c’era qualcuno che fosse più moderno degli altri, ci si adattava ai tempi e si cercava, anno dopo anno, di migliorare ciò che si poteva“.
Lei è stato il CT della nazionale italiana ai mondiali del ’90, che si giocarono, tra l’altro, proprio nel nostro Paese… La sua nazionale era una squadra di campioni: da Vialli a Baggio, da Baresi a Maldini, da Giannini a Schillaci… Come si gestisce uno spogliatoio all’interno del quale convivono personalità così forti?
“Ci vuole indubbiamente una grande personalità. Devo dire che io fui fortunato, perchè molti di quei ragazzi li conoscevo da tempo, avendoli già allenati nell’Under 21. Per gestire uno spogliatoio di campioni, bisogna saper comunicare con loro, fargli capire che l’allenatore non ha preferenze fra un giocatore e l’altro, che c’è bisogno di tutti, che si dev’essere sempre disponibili, indipendentemente dal fatto che si scenda in campo dall’inizio, che si giochi mezz’ora oppure soltanto cinque minuti. Soprattutto non bisogna mostrare incertezze e si deve sempre parlare chiaro con tutti. Io non trovai particolari difficoltà nella gestione del gruppo e non credo che altri CT invece abbiano avuto problemi, anche perché durante le fasi finali degli europei e dei mondiali si sta per tanti giorni insieme e si crea un rapporto, quindi tutto diventa più facile“.
Cosa ricorda della semifinale tristemente persa ai rigori contro l’Argentina? Quanto fa male vedersi sfuggire una vittoria sicuramente meritata per colpa di un errore dal dischetto? Non crede che la lotteria dei rigori sia uno strumento profondamente iniquo e inadeguato a decretare la sorte di partite così importanti? Uno strumento che mai tiene conto dei reali valori espressi dal campo e che raramente premia chi ha meritato?
“Senza dubbio la lotteria dei rigori è spesso ingiusta, ma rimane l’unico modo per decretare un vincitore, purtroppo non vedo alternative. Comunque l’Italia ha anche vinto ai calci di rigore, ad esempio nel 2006. Di quella semifinale è rimasta in me e nei miei calciatori una profonda amarezza, perchè con sei vittorie e un pareggio arrivammo terzi, mentre l’Argentina si piazzò seconda con due vittorie, tre pareggi e due sconfitte. Però quello fu il verdetto del campo e bisogna accettarlo, anche se, effettivamente, credo che la squadra meritasse di più e non perchè giocavamo in casa. Anzi, giocare in casa, in un certo senso, per noi fu forse uno svantaggio, perchè sentire ottantamila persone allo stadio olimpico che ti incitano ad attaccare continuamente, ti porta a spendere tantissime energie. Avremmo fatto ugualmente un bel mondiale anche fuori casa. Quella fu una nazionale molto amata e lo testimonia il fatto che sia tutte le partite dell’Italia ai mondiali del ’90 fecero registrare i picchi massimi di audience televisivo. E poi era una squadra composta da giocatori che provenivano quasi tutti dall’Under 21 e che con l’Under 21 si erano messi in gran luce, per questo la gente si era affezionata negli anni a quella nazionale“.
C’era un calciatore di quella nazionale, che lei, mister, si portò dietro dalla sua Under 21 e sul quale puntava fortemente, che, dopo il suo addio, fu tuttavia inspiegabilmente ostracizzato… Sto parlando ovviamente di Luca Vialli, uno degli attaccanti più forti che l’Italia abbia conosciuto… Come si spiega lei questa circostanza?
“Vialli con me partì titolare ai mondiali del ’90 e stava crescendo partita dopo partita, ma incappò in un infortunio che purtroppo sul più bello ne frenò l’ascesa, complice anche l’esplosione di Baggio. Ricordo che Vialli scese comunque in campo dall’inizio nella semifinale contro l’Argentina e giocò per 70 minuti. Era un grande giocatore Gianluca, un leader tra i più importanti di quella nazionale. Dopo di me continuò ad essere utilizzato, ma per poco e non moltissimo, anche se non saprei spiegarne la ragione. Ogni allenatore ha le proprie idee e fa le scelte che ritiene più opportune. Ad ogni modo, Vialli era un condottiero, un trascinatore ed esercitava una grande influenza sui propri compagni“.
C’è un qualche aneddoto particolare, legato alla sua carriera da allenatore, che vuol regalare ai nostri lettori?
“Non mi viene in mente alcun aneddoto particolare, perchè ho allenato per tanti anni e non è semplice ricordare tutto. Posso dire che quando mi trovavo con la squadra, cercavo di fare in modo che tutti fossero discplinati e contenti allo stesso tempo“.
Un’ultima domanda, mister… Il suo calcio e quello di oggi sono molto diversi… C’è qualcosa di quel calcio che non ritrova in quello attuale? E cosa invece di questo calcio le sarebbe piaciuto ci fosse nel suo?
“Io trovo che nel calcio di oggi manchi forse un po’ di qualità. Nel mio calcio c’era magari meno continuità di gioco, ma la qualità complessiva del gioco era superiore. Il calcio oggi è sicuramente migliorato, ma nella mia epoca le individualità erano maggiori. La distribuzione della fatica è l’aspetto del calcio attuale che avrei voluto ci fosse nel mio, anche se Bearzot ed io provammo a precorrere i tempi e a portare qualcosa di nuovo in nazionale dal punto di vista della distribuzione dei carichi di lavoro“.
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