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Lo strillo di Borzillo – Poco o niente…per ora niente!
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6 anni agoon
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RedazioneChe di solito queste erano le partite da Inter. In mezzo ai casini, con le spalle al muro, senza via d’uscita. Ho sempre adorato i miei colori per la capacità di risorgere tutte le volte che ci davano per morti, sepolti, distrutti. Più ci martellavano le palle più noi diventavamo cattivi, estraendo dal cilindro prestazioni ai limiti dell’umano, del possibile.
Ecco, con questo spirito mi sono avvicinato alla partita di ieri sera. Con l’orgoglio di essere interista, di saper trasformare le situazioni più disagevoli in vittorie impossibili. Certo, avevamo fuori mezza squadra; perché determinate assenze non possono essere taciute o fatte passare in cavalleria. Radja, Asa, Lautaro, Brozovic, uomini in grado chi di portare esperienza e serenità, chi di cambiare l’esito della gara con una giocata singola. E parlo solo e soltanto dei presenti, dei compositori in erba dal divano di casa non ne sento né la mancanza né, tantomeno, l’esigenza.
Veniamo da un discreto secondo tempo con la SPAL, tre dietro e ampiezza di campo, accenni di palleggio e di vita. Certo, poi hai Cedric e non Maicon, D’Ambrosio e non Chivu; ma, in sostanza, l’atteggiamento di quel secondo tempo avrebbe dovuto restare ben presente nella memoria di Spalletti. Che, al contrario, contro un centrocampo fisico che più fisico non si può, tecnico e capace di far girare il pallone, ripropone il suo cavallo di battaglia, un po’ come quando hai ospiti all’improvviso a cena e spari la tua famosa aglio-oglio-peperoncino specialissima, non piace a nessuno perché non dosi bene gli ingredienti, ma sei convinto di trasformarti in uno chef stellato per venti minuti; 4231 dove i due in mezzo sono Borja e Vecino. Che mi son chiesto: ma lo fa apposta? Risposta: no, io credo che Luciano nostro sia davvero certo di poter raggiungere traguardi impossibili schierando i suoi in tal guisa. E non esiste ragione migliore per continuare a regalare ai tifosi né gioie né soddisfazioni.
Pronti via e rischiamo di andare sotto. Ma nemmeno si fa in tempo a tirare il famoso sospiro di sollievo che si va sotto veramente; obbrobrio pallonaro di De Vrij, irriconoscibile, un ragazzino con le gambe che tremavano, e gol teutonico, con Handanovic incolpevole. Anzi, se alla fine ne prendi solo uno è grazie alle parate del CAPITANO, autore di una prestazione di livello. Io lo critico spesso Samir per le mancate uscite sui palloni alti; ma aveghèn (averne in milanese) di portieri così. E sennò prendetevi un Felice Sciosciammocca qualunque e siate felici.
È il minuto sei, c’è una vita da giocare. E tutto il tempo del mondo per recuperare.
Au contraire, man mano che i secondi passano, la sensazione di impotenza totale è sempre più marcata. Non copriamo il campo col fantasmagorico 4231, nel mezzo non becchiamo un pallone che sia uno col fantasmagorico 4231, sulle fasce lasciamo praterie devastanti col fantasmagorico 4231, le distanze non ci sono, diventa impossibile essere al posto giusto nel momento giusto, subiamo ripartenze su ripartenze senza opporci minimamente, col fantasmagorico 4231. Tanto che, minuto quaranta, Spalletti decide di cambiare. Ottimo. Ci ha messo quaranta minuti di nulla totale ma, alla fine, ha capito. Lo capiscono meno quelli in campo, che nella mente hanno solo e solamente il fantasmagorico 4231, ed impiegano cinque minuti cinque di orologio per seguire le direttive del tecnico. Giusto il tempo perché l’arbitro fischi un paio di volte mandando tutti negli spogliatoi. È zero a uno, poteva essere zero a due, o a tre. Noi, nella fattispecie, non pervenuti.
La ripresa vive sulla falsariga di quanto accaduto inprecedenza; siamo timorosi, non propositivi, la paura di subire gol è palpabile. Del resto hai concesso troppo all’avversario il quale ha preso coscienza delle tue debolezze e, avendo un modulo, una idea di come stare in campo, una capacità di palleggio quantomeno richiesta tra professionisti pallonari, gestisce senza mai dare l’impressione di subire. Ma, alla fin della fiera, subire cosa? Al minuto novantasei ho contato tre tiri verso la porta tedesca. Tre non trenta. Nemmeno trentatré. Semplicemente tre. Dal momento del gol subito erano trascorsi novanta minuti. E, per misericordia, evito di ricordare le parate di Handanovic o le occasioni pazzesche buttate al vento dai nostri avversari, spesso in superiorità numerica stile partitella tra amici con noi fermi in mezzo al campo boccheggianti.
Oddio, non è che scusanti non ce ne siano, al di là delle assenze numerose di ieri. La rosa ristretta, il settlement agreement (da cui pare ci libereremo a breve e allora non ci saranno più paletti da mostrare al pubblico come giustificazione ad acquisti imbarazzanti), Il Financial Fair Play no, quello esisterà sempre quindi bisognerà continuare a fatturare, nel nome delle voci costi ricavi. Un vero rompimento di palle, una roba che ha trasformato il calcio in non calcio, coi tifosi costretti a corsi serali di economia organizzati dal Comune. Comunque, dicevamo, non è che le scusanti non ci siano. Ma il problema non sono le assenze. Il problema è il nulla che si è costruito. Ogni squadra è riconoscibile, ha un suo stile di gioco, una forma, una sostanza. Vederci, spesso, equivale a guardare undici ragazzi volenterosi che non sanno esattamente cosa fare, dove stare, come muoversi. Il rimpianto, caro Luciano, è che la Sua squadra, mi dispiace, manca di identità. E quella, glielo garantisco, non la possono trasmettere i sessantamila che affollano il Meazza settimanalmente.
Siamo fuori da tutto. A inizio Marzo. Ci resta un derby e il quarto posto da raggiungere.
Cerchi di riprendere la rotta, Mister. Questa strada, che Lei ha scelto di percorrere, è pericolosissima. Coraggio, basta domenica per far pace col mondo.
Non ci deluda una volta di più.
Alla prossima.