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Editoriale Australian Open – Made in China?
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11 anni agoon
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RedazioneAl 3000 di Batman Street dell’internazionale metropoli di Melbourne, risiede la casa degli Australian Open. Il primo slam della stagione rischia, nel breve, di passare di mano perché gli organizzatori del torneo sono attratti dai fruscianti renminbi cinesi come Zio Paperone lo era per i dollari. Gli occhi diventano come le corsie di una roulette che continua a girare e, di colpo, si ferma sul jackpot. Sebbene stazioni in un momento di ristagno economico, la Cina del tennis, ha compiuto passi da gigante portando una ragazza (Na Li) sul tetto del Roland Garros nel 2011; probabilmente avrà anche un tennista nel tabellone maschile ma, per il momento, i tempi sono prematuri. Vendere l’open d’Australia alla Cina comporterebbe un cambiamento radicale nei calendari sportivi e nei palinsesti televisivi in quanto le due capitali sono separate da 12mila chilometri e tre ore di fuso orario.
Tuttavia, per salvare un torneo che fino a qualche anno fa zoppicava – va detto che oggi è il preferito dai giocatori – si fa questo e altro: recentemente il Comitato Olimpico Internazionale ha bacchettato la Russia per aver speso troppo denaro pubblico per le venture Olimpiadi di Sochi. Probabilmente dimenticando che quei soldi sono stati usati come titolo d’acquisto della candidatura stessa. Se il denaro può salvare un pezzo di tennis con un nuovo mercato (se un terzo dei cinesi si iscrivesse in un centro sportivo si avrebbero 450 milioni di tesserati in più), ciò che depone in sfavore di questo orientamento è la tradizione: i quattro Slam sono un prodotto ciclico, frutto del susseguirsi di avvenimenti che hanno avuto come protagonista l’uomo e lo sport. La storia non è iniziata ieri e non è possibile postdatarla con un pesante assegno bancario. Perciò non desta alcuna meraviglia se gli organizzatori continuano ad alzare l’asticella del montepremi, è un meccanismo di difesa preventivo.
Premesso che il professionismo non è quella volgare fiera di dollari che appare, tocca parlare anche di risultati. Fra i signori, Nole Djokovic non ha alcuna difficoltà a piegare in neanche due ore il modesto Lacko, la strada per la finale è collinare e solamente Stan Wawrinka (qualificato al secondo turno per il ritiro del kazako Golubev) rappresenta l’unica salita. Nel tabellone femminile iniziano a cadere, come petali di margherita, le prime teste di serie, addirittura quattro: la più fragorosa è quella di Petra Kvitova, campionessa di Wimbledon 2011, paragonata blasfemamente a Martina Navratilova. Escono di scena le Sorelle d’Italia, Sara Errani e Roberta Vinci, battute nel singolare rispettivamente dalla non irresistibile tedesca Görges (il cui cognome sembra più un rumore digestivo) e dalla cinese Zheng. A volte ritornano.
Alessandro Legnazzi
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