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Editoriale Confederations – Havenaar, il giappolandese
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11 anni agoon
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RedazioneAkira Kurosawa, campione della cinematografia nipponica, nel 1985 dirige «Ran»: Hidetora Ichimonji, signore della guerra nel Giappone feudale, decide di abdicare. Ai suoi tre figli, Taro, Jiro, e Saburo, prova a dimostrare che l’unione rende forti attraverso un esercizio noto grazie al leggendario M?ri Motonari, daimy? vissuto nel XVI secolo: Hidetora invita il terzetto che ha messo al mondo a spezzare prima una singola freccia, poi tre assieme. Il senso è chiaro: distruggere il singolo è semplice, mentre avere la meglio su un insieme – seppur numericamente limitato – è assai più complesso. Peccato che Saburo, con irruenza, frantumi le tre frecce in un colpo solo. La saggezza di M?ri Motonari, su di lui, non ha fatto colpo. Contesto differente, medesima parabola. La squadra di calcio di Hiroshima, infatti, si chiama Sanfrecce. «San» significa tre, in giapponese, mentre «frecce» è proprio il vocabolo italiano, ghermito dagli ideatori di questo fantastico nome. «Trefrecce», un omaggio a M?ri Motonari. Ma la squadra di Hiroshima ha assunto questa denominazione solo nel 1992, con la nascita della J. League: prima, si chiamava Mazda Soccer Club. Che, nel 1986, mise sotto contratto il portiere Dido Havenaar. Il quale, dopo aver difeso le nipponiche porte per una dozzina d’anni, ha deciso di stabilirsi nel Paese del Sol levante. Qui sono nati Nikki, classe ’95, che ha esordito in Coppa Nabisco quest’anno con la maglia del Nagoya Grampus, e Mike, il maggiore, 26 anni: gioca in Olanda, nel Vitesse, dal gennaio del 2012. Ma si sente giapponese, come testimonia la convocazione ricevuta da Zaccheroni per la Confederations Cup brasiliana, in cui indosserà la maglia numero 11.
Curioso, che il Giappone calciofilo confidi nella vena realizzativa proprio di un olandese, per gioire. Difatti, quella che è probabilmente la più grande delusione sportiva nipponica è stata causata proprio da un figlio dei Paesi Bassi: Anton Geesink, da Utrecht. Lì, dove è nato un cigno di nome Marco che ha incantato la metà rossonera di Milano, ed un tarchiato fantasista che ha regalato gioie e dolori a quella nerazzurra, questo manovale assisteva ad una partita di calcio. Nell’intervallo, dimostrazione di judo: scocca la scintilla. Anton, due metri e 115 chili, entra in simbiosi col tatami. E con la vittoria: chiuderà la carriera imbattuto, nel 1967. Inizio in grande stile: campione del mondo a Parigi nel ’61, primo europeo ad interrompere l’egemonia giapponese. Poi, l’impresa e il sommo affronto: Nippon Bud?kan, Tokyo, 23 ottobre 1964. Finale del torneo di judo, categoria open. Si tratta della prima volta del judo alle Olimpiadi, ed è la prima volta delle Olimpiadi in Giappone. Sino ad ora, gli atleti giapponesi hanno vinto solo ed esclusivamente medaglie d’oro, in ogni categoria di peso. Ma Geesink, dopo 9 minuti e 22 secondi, piega la resistenza del padrone di casa Akio Kaminaga: sul gradino più alto del podio sale lui, un olandese in j?d?gi. Havenaar, per riabilitare l’Olanda sportiva agli occhi del Giappone, deve – come minimo – vincere un Mondiale, segnando il gol decisivo in finale. Ma dubito che basti: parliamo di calcio, roba da inglesi. Nulla a che fare col «j?d?», parto della sfolgorante mente di Jigor? Kan?. Lo sport per eccellenza, nel Paese del Sol levante.
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