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Editoriale Wimbledon – Il tennis non è più made in Usa
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11 anni agoon
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RedazioneConsultando le statistiche dei Championships non vi è traccia di una edizione così falcidiata dagli infortuni: in quattro giorni ci siamo giocati Federer (n.3 Atp), Nadal (n.5), Tsonga (n.6), Azarenka (n.2), Sharapova (n.3), Wozniacki (n.9), Ivanovic (n.12) e Jankovic (n.16). Otto ex numeri uno al mondo se ci aggiungiamo il pensionato Lleyton Hewitt (fatto fuori da Brown, n.189). Soltanto Nole Djokovic e Serena Williams sono sopravvissuti all’ecatombe dovuta in principal modo allerba evolutiva dei campi.
Laneddoto simile che la memoria riproduce è il mardì noir, il martedì nero, dellOpen di Francia del 1990. In quellinfelice circostanza uscirono di scena le due teste di serie, Stefan Edberg e Boris Becker, eliminati da due giovani promettenti, Sergi Bruguera – due volte vincitore del Roland Garros – e Goran Ivanisevic, vincitore di Wimbledon 2001. Mica Darcis e Stakhovsky, quotati rispettivamente a 125 e 101 dagli infallibili bookers britannici. Con un buon serve&volley il tennista ucraino si è calato nei panni del giardiniere ed ha estromesso Roger Federer, uno che aveva sempre raggiunto almeno i quarti di finale negli ultimi trentasei Slam, uno che sul Central Court non perdeva dal 2002.
Più di tutto, però, consentitemi di evidenziare che per la prima volta dal 1912 nessun giocatore statunitense presenzierà al terzo turno di Wimbledon, e in quellanno nessun giocatore nord-americano era iscritto al torneo. Djokovic elimina Bobby Reynolds, lultimo sopravvissuto della nazione che nella storia dei Championships ha alzato il trofeo ottantasette volte, di cui trentatré maschili: nessuna può vantarne tanti, sebbene la Gran Bretagna abbia trentacinque titoli maschili (settantasei complessivi) ma tutti risalenti all’età della pietra. Lunica speranza è riposta in Andy Murray, figliol prodigo scozzese adottato da sua maestà.
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