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GARBAGE TIME – Manu Ginobili, da Bahia Blanca sul tetto del mondo a passo di tango!
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10 anni agoon
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RedazioneCarlos Eduardo Gavito, uno dei più celebri ballerini di tango argentino, era solito definire con grande lucidità e profonda conoscenza la danza tipica della sua orgogliosa terra natale come “Il segreto che si cela in quell’istante di improvvisazione che si crea tra passo e passo, come rendere l’impossibile una cosa possibile: ballare il silenzio”.
A pensarci bene, nulla di così diverso dallo sport, nulla di così lontano dal provare a “giocarlo” il silenzio, invece che ballarlo, improvvisando tra un passo e l’altro con una palla tra i piedi o ben stretta tra le mani.
Mani forti, mani eleganti, mani generose, che si muovono rapide come i passi dei tangueros quelle di Emanuel David “Manu” Ginóbili, da Bahia Blanca, la città del baloncesto, dell’otra pelota, della cultura e del sale.
E’ in una Argentina, scossa dal colpo di stato e sottomessa alla giunta di Videla, in cui tra gli orrori della “Guerra Sporca” e dei “desaparecidos”, si attende l’imminente Mundial, per provare al mondo la superiorità del calcio albiceleste e non solo, che nasce il 28 luglio 1977 Emanuel David Ginobili. Mentre milioni di argentini sognano i numeri di Ardiles, gli interventi al limite di Passarella ed i gol di Mario Kempes, a Bahia Blanca, 550 km a sud-ovest della capitale Buenos Aires, il calcio è, incredibilmente, il secondo sport più seguito. Centro culturale della nazione, con il tasso di analfabetismo più basso di tutta l’Argentina, a Bahia Blanca si predilige l’otra pelota, quella un po’ più pesante, di colore (solitamente) arancione e con gli spicchi. E’ in questo contesto che muove i sui primi passi il piccolo Manu.
Terzo figlio di una famiglia unita, legata, compatta, Manu impara ben presto a palleggiare con la mano mancina, seguendo le orme dei fratelli maggiori Leandro e Sebastian, ma il fisico minuto ed estremamente ossuto, limita non poco i suoi primi anni di vita e di carriera.
In pochi, nemmeno papà Jorge, credono che quel mucchietto di ossa tutto naso, possa trasformarsi in un giocatore professionista, ma si sa che mentre gli uomini discutono, la natura agisce. Nel corso di una sola estate, il piccolo Manu cresce improvvisamente di parecchi centimetri, trasformandosi in un ragazzo agile, esplosivo, imprevedibile e con un QI cestistico fuori dalla media, frutto di anni di duro allenamento e di studio quasi scientifico dei movimenti del suo idolo d’infanzia: Michael Jordan.
L’esplosione fisica e la definitiva maturazione gli valgono la chiamata dell’Estudiantes Bahia Blanca, dove si aggiudica il titolo di capocannoniere a soli 19 anni d’età. Qui lo nota l’allenatore della Viola Reggio Calabria, Gaetano Gebbia, da sempre grande conoscitore del basket sud americano, che rapito dal suo agonismo, dalla sua duttilità e dal suo “istinto cestistico”, decide di portarlo in Italia. Due anni a Reggio Calabria e due a Bologna, sponda Virtus, sono più che sufficienti per capire che il ragazzo possiede la “garra” giusta per compiere il definitivo salto di qualità. Con quel suo stile unico, inconfondibile, un po’ sfacciato, certamente spettacolare, ispirato (forse) all’arte dei grandi tangueros, Ginobili danza fin sul tetto del mondo, raggiungendolo con la maglia dei San Antonio Spurs (4 volte) e con quella della nazionale argentina.
Iconico personaggio, Manu è oggi conosciuto e tributato in Argentina quasi come Diego Armando Maradona, (il terzo argentino più famoso della storia dopo Che Guevara ed Evita Peron) per gli incredibili successi ottenuti. Il suo essere schivo, quasi infastidito dalle luci della ribalta, un lavoratore infaticabile, un fedele compagno su cui potere sempre contare, lo hanno reso un atleta amato e più a misura d’uomo di quanto non lo sia mai stato il Diez.
Nella sua città, lungo le spiagge salate dell’Atlantico, ora il palazzetto del basket porta il suo nome, i pibes indossano tutti la maglia con il numero 20, improvvisando, come il loro beniamino passo dopo passo, giocando, insieme, il silenzio.
P.S. Manu Ginobili è (per il basket), insieme a Javier Mascherano (per il calcio), il giocatore più splendente e vincente di quella Generación Dorada di atleti che l’Argentina ha prodotto a livello sportivo, quasi come una sorta di reazione rispetto alle tremende difficoltà politiche ed economiche, causate dalla pesantissima crisi finanziaria di inizio millennio.
Alle Olimpiadi di Atene, nel 2004, tutto l’orgoglio e la fierezza di un popolo ferito, piagato, trafitto, esplosero negli orgasmatici successi finali del torneo di pallacanestro e di quello calcistico. Tra le fila di quelle squadre leggendarie militavano giocatori del calibro di: Carlos Delfino, Andrès Nocioni, Fabricio Oberto, Luis Scola e Hugo Sconochini per il basket e Roberto Ayala, Nicolas Burdisso, Gabriel Hainze, Javier Saviola e Carlitos Tevez, per il calcio.
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