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GARBAGE TIME – Dwyane Wade, quando Flash dominava il gioco come MJ..
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11 anni agoon
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Aprendo il vocabolario alla voce “dominare”, la prima definizione riporta: “Tenere soggette persone o cose alla propria autorità”. Sfogliando un immaginario “Zanichelli” del basket, probabilmente, vi ci troveremmo, invece, semplicemente la foto di Michael Jeffrey Jordan, sospeso in aria con la palla tra le mani e la lingua di fuori, senza bisogno di troppe parole. Per quelli come il sottoscritto, che non hanno mai avuto l’onore e il privilegio (se non finendo per fondere testine su testine di vecchi videoregistratori) di ammirare in diretta le gesta di “His Airness” (per ineluttabili limiti di età), la più prossima prova di onnipotenza cestistica su di un campo da pallacanestro, paragonabile in termini di soggezione delle “cose” all’autorità del suo artefice, è rappresentata dalla mitica ed allo stesso tempo mistica prestazione fornita da Dwyane Tyrone Wade nelle, forse irripetibili, Finals del 2006.
Con gli Heat sotto 2-0 nella serie contro i Dallas Mavericks, “Flash”, prese letteralmente per mano i compagni, nonostante la giovanissima età, in una drammatica ed elettrizzante rimonta in gara 3: sotto di 13 punti a 6.15 minuti dalla fine del quarto quarto. Quello che successe in quei 6 minuti e spiccioli, non può essere facilmente spiegato, ma parafrasando il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer: “L’intima essenza delle cose è estranea al principio di ragione”.
Come posseduto dagli dei del basket, Wade, infilò uno dietro l’altro, tutti i palloni che i compagni si affrettavano a consegnargli, urlando: “Tira Dwyane, noi non ne vogliamo sapere, pensaci tu!”, segnando 15 dei suoi 42 punti finali e strappando, anche se sarebbe più corretto dire rapinando, dalle mani dei “Cavalli delle praterie”, il loro primo anello NBA (La vendetta è un piatto che va servito freddo e Wunder Dirk e compagni, avranno la possibilità di redimersi qualche anno più tardi). A quegli incantevoli 42, forse i più incantevoli cui io abbia mai assistito, il numero 3 degli Heat ne fece seguire, nelle notti adiacenti, prima 36 (2-2), poi 43 (2-3), per chiudere nuovamente a quota 36, con 10 rimbalzi (2-4: game, set and match Miami): dai tempi di Michael Jeffrey Jordan, non si vedeva un singolo giocatore dominare gli avversari in maniera così imbarazzante.
E pensare, che da giovanissimo, il piccolo Dwyane non aveva mai realmente mostrato l’effigie del predestinato. Nato a Chicago, Illinois, Dwyane venne presto affidato alle “amorevoli” cure del padre e a quelle della sorella Tragil che si prendeva cura di lui mentre la madre entrava ed usciva di galera a volte per abuso, altre per spaccio di crack. La sua formazione cestistica avvenne disputando i più classici dei 2 contro 2 in perfetto stile americano insieme ai fratellastri, nati dal secondo matrimonio del padre. Le regole erano poche ma molto semplici: solo chi vince continua a giocare, l’arbitro è per le femminucce, vietato lamentarsi e per il perdente: 200 flessioni! Solo che al piccolo Junior (come veniva chiamato in famiglia) di dovere fare i piegamenti capitava spesso, molto spesso. Era molto più minuto rispetto ai suoi fratelli ed in famiglia le attenzioni di papà e l’amore di mamma (quella nuova) erano tutti rivolti altrove, perché la “Star” era un’altra. Ai tempi della Harold L. Richards di Oak, infatti quello forte era considerato il fratellastro Demtrius McDaniel, al punto che, complici risultati scolastici che non gli avrebbero mai potuto aprire le porte di Yale, al termine della High School, furono soltanto tre le offerte ricevute dal giovane Dwyane: DePaul, Marquette ed Illinois State. Ed è proprio a Marquette nel corso del suo anno da “junior” (il primo lo aveva trascorso interamente seduto in panchina per scarsi risultati accademici) che Wade esplose in tutto il suo talento segnando 21.5 punti di media e conducendo i Golden Eagles alle Final Four. La sua crescita esponenziale attirò immediatamente l’attenzione di molti general managers e addetti ai lavori e l’anno successivo i Miami Heat spesero per il figlio di Chicago la chiamata numero 5 al draft del 2003 alle spalle di LeBron James, Darko Milicic (eh si, lo so..), Carmelo Anthony e Chris Bosh (qualcuno di questi lo ritroverà più avanti) .
Per colpa di un ginocchio sinistro che non ha mai realmente smesso di fare le bizze e di tormentarlo sin dalla prima operazione subita nell’estate del 2007, di quel Dwyane Wade, straripante, incontenibile, dionisiaco, (quasi) jordanesco, sicuramente dominante, oggi rimane solo il ricordo. I successi personali nel corso della sua carriera di certo non sono mancati: 10 volte All-Star, 2 volte inserito nel primo quintetto NBA, vincitore del titolo di miglior realizzatore nel 2009, così come quelli di squadra: 2 campionati NBA consecutivi nel 2012 e nel 2013 che si aggiungono a quello del 2006.
Mai più, però, si è potuto rivedere lo stesso strapotere atletico, fisico, tecnico e mentale di quelle Finali, soprattutto quest’anno quando la copia sbiadita e impolverata di quel Flash, è stata spazzata via dalla furia vendicatrice dei San Antonio Spurs.
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